Mattina, lotta pazza nel lettone e pomeriggio al parco. Davanti al Club del Tennis mi fermo. Entro. Mi affaccio sul campo centrale. C’è un poco di nostalgia nel mio sguardo e molto stupore in quello di mio figlio. Da quattro anni non gioco più. L’ultima mia partita era in una finale, vinta, nella coppa Italia per club.
Francesco segue l’andare e venire della pallina gialla con eccitazione. È la sua prima volta. Gli piace ascoltare il grido soffocato che emettono i giocatori quando lasciano andare il colpo. Poi d’improvviso si mette a ripeterlo. I due giocatori ci guardano, contrariati. Per tredici anni sono stato sui campi da tennis a livelli discreti, so che vuol dire il loro sguardo. E so il fastidio – vero – che dà mio figlio con il suo gridolino dopo ogni scambio.
«Francesco non si fa», lo rimprovero. Lui continua a farlo, anzi ora con maggiore intensità.
I due si fermano un momento e fissano nella nostra direzione. Capisco tutto, ma non sarà facile. Né farlo stare in silenzio e tantomeno trascinarlo via. Non senza tragedie. È troppo attratto. Conosco mio figlio. Poi mi ricordo. Chiodo scaccia chiodo. Gioia scaccia gioia. Spero. Lo metto a cavallo sulle spalle e grido eccitato: «Ua!, al lago! Tutti al laghetto della villa!» galoppo verso il laghetto.
Prima di lasciare il campo nitrisco, non è cattiveria. Una scena quando va fatta, va fatta in pienezza. E mi auguro che i due giocatori sappiano perdonarmi, in fondo è l’ultimo versaccio che sentiranno.
«I’chicco agu», dice mio figlio divertito da sopra le mie spalle. E via. Tutto senza urla, né disperati pianti. Quasi non ci speravo. E mentre mi allontano avverto solo il rumore della pallina che rimbalza sul terreno e gli alternati grugniti dei due giocatori a ricordarmi di un tennis che non c’è più. Bene così.