Allora, perché questo libro? Me lo sono sentito domandare spesso. Ma non ho mai avuto una risposta precisa, definitiva. Ho cambiato più volte versione. Non per gli altri, ma dentro di me.
Mio figlio con la sua nascita ha aperto uno squarcio fra angoli bui che non sapevo di avere. Non lo sospettavo. Ma mi ha dato anche il coraggio di provare a portarci un po’ di luce. Ecco, ho scoperto che scrivere è un modo di portare luce.
Sì, ma quando è iniziato? Come? Insistono.
Tutto è iniziato come inizia ogni cosa sul cedere di una chiusura; ho risposto spesso così perché non avevo un modo migliore per dirlo. Per quanto uno scrittore forse dovrebbe essere in grado di farlo. Ma mio figlio non mi ha insegnato a essere uno scrittore, mi ha insegnato a essere onesto. Posso dire solo quello che c’era, non perché c’era.
C’era una rabbia repressa, inesplosa e poi una specie di necessità. Cercavo un nemico, qualcosa con cui battermi. Perché ero abituato a muovermi fra le sfide. A vincerle. C’era la ricerca di un senso che non trovavo. C’era questo e altre cose ancora.
Con la nascita di mio figlio sono iniziati anni di nuovi equilibri, ogni volta da ricostruire. Intorno a me, sul lavoro, in famiglia. E dentro di me.
Cosa mi rende diverso dagli altri papà?, mi domandavo. Non è così per tutti… è nato un figlio, si cambia. Perché il mio cambiare doveva essere diverso? Per via della sua malattia? Per questo? Spesso ho risposto di sì. Ma forse non era la verità. Non era tutta e soltanto la verità. Forse la sua condizione non è stata secondaria, ma non definitiva. A rifletterci tutto poteva stare nell’eco del mio malessere.
Difficile separarlo, il mio malessere dalla sua malattia. Forse ci sarebbe riuscito Jiddu Krishnamurti, forse. Non io. E alla fine mi sono convinto che non c’è da ragionarci sopra. Non c’è nulla da capire. Nulla da indagare. La risposta è in quel che è accaduto. Ha ragione Wittgenstein: conta il fatto. Solo il fatto. E il fatto è semplice: se c’è un uovo in covata, con dentro un pulcino. Ecco, prima o poi l’uovo schiude e il pulcino nasce.
È inevitabile.
Bene, questo è stato: con la sua nascita mio figlio ha generato – dentro di me – una specie di anatroccolo. Sì, brutto: scuro e livido come un dolore. O meglio – con maggiore onestà – nascendo, mio figlio ha generato dentro di me una sofferenza, una sottile angoscia che ha cominciato a covare giorno dopo giorno – impossibile sperare che prima o poi non saltasse fuori. Qualsiasi anatroccolo – brutto o bello – è fatto per uscire dall’uovo in cui è stato covato. E non sapendo bene dove mettere questo anatroccolo alla fine io l’ho messo dentro una storia.
Sì, sapete tutti poi quel che succede… diventa un cigno.