Sabrina apre il divano-letto e Francesco ci salta sopra. Poi vuole che Miriam faccia altrettanto. Da un paio di giorni è entusiasta di questa novità. Sabrina con la sua bambina sono appoggiate da noi in attesa di trovare una sistemazione migliore. Sono arrivate martedì, dopo una rapida telefonata. Sabrina ha detto a Iole che si era decisa a lasciare Fabrizio, suo compagno da undici anni, sei dei quali di convivenza e – non sapendo dove andare – veniva a stare da noi. Iole ha risposto “va bene”, immaginando comunque il mio consenso e (spero) anche il mio imbarazzo.
Fabrizio è un collega che in sincerità non considero amico e Sabrina una donna che conosco appena. Pur sapendo dei loro continui litigi la cosa mi ha lasciato spiazzato. Fra l’altro continuo a non capire perché Sabrina si sia rivolta proprio a noi. Non è poi un periodo semplice della mia vita e mi piacerebbe evitare altre complicazioni. Però nutro la speranza che la ricerca di una nuova sistemazione sia alla fine la replica della vecchia: cioè che torni da lui. Mi sembra tutto sia accaduto troppo in fretta. Per due giorni non indago, su motivazioni, scelte, torti o ragioni. Come se Sabrina fosse un normale ospite in visita a Roma.
Mi diverte vedere Francesco giocare dolcemente con Miriam, anche se lei appare spaesata e cerca il suo papà. Fabrizio ancora non l’ho sentito. Quando lo chiamo mi dice che sa tutto e che va bene così. «Non hai nostalgia di Miriam?» gli chiedo per capire di più. «No». Mi risponde rapido, troppo rapido perché sia vero. Ma con un distacco profondo per credere che la cosa sia momentanea. Mi sembra che tutto si svolga come non dovrebbe svolgersi, fra genitori. Miriam ha riccioli neri e occhi chiari, uno sguardo sveltissimo a dispetto dei suoi tre anni e – a dispetto della madre – un viso di una dolcezza incredibile. Al terzo giorno penso sia venuto il momento di forzare, perché troppe cose sono state lasciate nel limbo: indefinite. Convinco Francesco, con facilità, a giocare con Miriam in salotto e mi avvicino in cucina con i miei appunti.
«Senti che cosa ho ritrovato Iole», dico a voce alta. «Senti che bell’appunto». Anche Sabrina smette di tagliare le zucchine e mi guarda. Bene, l’intento era proprio di parlare a Tizio perché ascoltasse Caio. «È una frase di Guy Michel Franca, l’ho trascritta durante una sua conferenza sulla diversità: “La mia esperienza di mediatore familiare mi fa suppore che non esistono problemi di coppia, esistono solo problemi personali portati dentro la coppia» Iole mi guarda «Sì, bella», commenta. Al momento non posso pensare a una sua alleanza e tanto meno alla sua complicità. Ma sono certo della sua onestà. Guardo Sabrina. Lei torna a tagliare le zucchine. In questi giorni ho capito che è una donna difficile, estremamente silenziosa. L’opposto di sua figlia.
Cerco comunque di non perdere l’occasione «E ti sembra anche vera?». Iole fa su e giù con la testa, non mi aiuta molto. «E tu Sabrina, che ne dici?» Lei mi guarda. Resto posato con la spalla contro la porta in attesa della sua risposta. «Niente», risponde. «Niente?», ripeto sorpreso. «Non so. Mi sembra una frase che non risolve nulla. Come la maggior parte delle frasi, anche quando sono belle». La guardo, capisco che non sarà facile. Ci sono i pensieri, poi le frasi e poi le azioni. Pensieri e frasi ci aiutano a compiere azioni in grado di risolvere qualcosa. Lo penso, senza dirlo. E penso ancora: meglio se partiamo da pensieri e frasi belle. Non dico nemmeno questo.
Il quarto giorno diventa ancora più complicato, perché ad accogliermi al mio rientro c’è un cagnolino. Non è neanche tanto “ino”. Una stazza media. Un pelo lungo e scuro. Mi si fa incontro eccitato. Anche Francesco è eccitato. Da quando c’è Sabrina le novità s’accavallano. «Toh! Abbiamo un cane in casa…» Dico a Iole per gioco. Ma non sono giorni in cui ha voglia di giocare, non risponde. In verità neanch’io. Il cane mi abbaia. «Vuole che gli tiri la palla», mi avvisa Sabrina. «Sì. Mi vado prima a cambiare. Ti spiace?» rispondo e mi rifugio in camera. Cerco di trovare lucidità e fermezza. Anche soluzioni, ma non ho capito il problema. Quando riappaio ho comunque una strategia: «Scusate ma devo finire un report urgente».
Devo trovare spazio per le mie riflessioni. Mi chiudo nello studiolo, in parte è anche vero. «Perché torna dall’ufficio se poi deve lavorare in casa?» Sento che domanda Sabrina. «Perché è ingrassato, i pantaloni gli vanno stretti e non vede l’ora di mettere la tuta», le risponde Iole. Ridacchio anch’io sperando che non mi sentano. Finito il report mi metto sul divano. Francesco non mi cerca, sta cucinando la pasta (per finta) insieme a Miriam. Sabrina si avvicina.
Si siede vicino a me. «Non ti piace?», domanda. «Cosa?», rispondo. «Il cane?». Guardo quel cane sdraiato sopra una mia vecchia felpa che capisco è diventata la sua cuccia. «No, mi piace. È molto affettuoso. Anzi noi è da più di un anno che pensiamo se prendere o non prendere un cane…» Mi fissa stupita: «Un anno?» Annuisco. «Io l’ho deciso ieri sera e stamattina ero già al canile». Quei pochi dubbi rimasti, svaniscono.
«Bene. Credo che stasera dobbiamo parlare un po’ Sabrina…»
«Stasera? No, sono molto stanca…» mi risponde lei.
«Cercheremo di essere brevi».
«Parlare…» ripete lei, ma fra sé e poi sbuffa.
La sera mettiamo a letto i rispettivi bimbi e – al di là di quel che ne pensa Watzlawick – parliamo. Decido di non affrontare subito le questioni che mi stanno a cuore: “ospitalità”, permanenza, regole e opportunità. Ho trattato diversi casi di mediazione familiare e penso di poter essere di qualche utilità anche a lei. E per quanto mi risulti antipatica mi sta a cuore la bambina e l’essere umano che lei rappresenta. «Sai Sabrina… io credo che sia importante capire in profondità cosa vuol dire vivere in coppia?»
Mi guarda e appare spiazzata. Forse si immaginava subito una ramanzina su regole e ospitalità. Vado avanti «Per quel che penso io, vuol dire cercare di vivere essenzialmente nell’amore. Nella convivenza deve trovare spazio la gioia di sapersi amati, l’entusiasmo di edificare e consolidare il proprio progetto di vita con un’altra persona. Ma devono trovare spazio anche, e non lo dico per gioco, le contrarietà, i dolori e il trascorrere del tempo che ci consuma i corpi, rende più ruvidi i caratteri e colora i giorni con la sua grigia monotonia. Seneca amava sostenere che: “per quanto il foglio sia sottile, ha sempre due facce”. Credo che l’errore delle coppie che si separano sia nell’illusione di poter afferrare questo foglio rinunciando alla facciata meno edificante. Non è possibile. L’unione con l’altro può aiutarci a scoprire la sacra bellezza di ogni giorno oppure condannarci all’inferno. Il segreto è proprio nell’impegno che mettiamo nell’esaltare il lato del foglio su cui è scritta la gioia del vivere comune ma non possiamo vivere nell’illusione che l’altra parte del foglio non appaia mai nella nostra vita. Cioè, tocca a noi. Quando accade non ha senso fuggire…» Mi fermo un momento, la guardo. Mi sento ispirato e riprendo:
«È richiesto un impegno costante, dobbiamo mettere in gioco le nostre virtù: la lealtà, la sincerità, l’umiltà, la gioia, la laboriosità, la magnanimità. Se ci rifletti stare con l’altro è la situazione migliore per mettere alla prova la nostra capacità di farci umani. È qui che possiamo dimenticare le nostre preoccupazioni e prenderci cura di quelle altrui, è il momento in cui possiamo far brillare la nostra capacità di ascolto e di comprensione, l’abilità di svolgere con amore le piccole faccende di cui è intessuta la convivenza quotidiana. È il nostro banco di prova per eccellenza. Sai spesso nel mio lavoro vedo persone indaffarate in diverse forme di volontariato, che poi sono incapaci di porre altrettanta gioia ed energia nella propria famiglia. Ingigantiscono gli attriti e fanno richieste esorbitanti con le persone con cui dovrebbero essere più tolleranti, creando il deserto là dove dovrebbero porre il massimo impegno perché sorga un’oasi di serenità. Ecco, l’amore è come un bambino: occorre che sia educato, curato, coccolato. Va aiutato a crescere. E va fatto soprattutto nei momenti di difficoltà, lì dobbiamo essere capaci di ritrovare quella tenerezza, quella facilità di donarsi che c’era in principio. Maturando noi, deve maturare anche il nostro modo di amare. Non c’è altra possibilità. Senza esitazione, dobbiamo essere genitori affettuosi e attenti. Sì, ogni giorno dobbiamo essere genitori di Vita del nostro amore. Fare di meno non ha senso, o meglio non è amore».
Mi fermo e la guardo. Mi sembra di aver fatto davvero un bel discorso. Lungo ma bello. Mi auguro che possa illuminarla. Lei mi guarda perplessa. Con la coda dell’occhio scopro che anche Iole mi guarda. Mi guarda soltanto, poi con un passo lieve va verso la cucina. Sabrina continua a bere il suo tè. Va bene. Molte delle mie riflessioni, delle mie incertezze, delle mie paure hanno trovato rifugio in una tazza di tè. Non mi aspetto una replica, non me ne ha mai fatte.
«Dunque…», dico perché passata l’enfasi mi rendo conto che per quanto bello, il mio lungo discorso potrebbe anche dirsi barboso e moralista. E ancor più mi rendo conto che forse non era riferito a lei più di quanto non fosse riferito a me. Quanto sto aiutando a crescere l’amore nella mia famiglia? Quanto? Che predica era? E fatta a chi? Mi risuonano queste e tante altre incertezze. Fra l’altro mi ricordo pure che avevo promesso che saremmo stati brevi. E mi sembra che ora non ci sia altro tempo per affrontare le questioni che mi stanno a cuore. Che erano anche quelle semplici, quelle che riguardavano opportunità, ospitalità e regole. Faccio per alzarmi e andare, sentendomi anche un poco goffo. Il grande comunicatore che non è riuscito a dire neppure una parola di quel che aveva a cuore comunicare.
«Dario!», mi richiama lei.
«Sì?»
«Non darti troppo pena per altro. Domani ce ne andiamo.»
«Ah!»
Non mi viene da aggiungere nulla. Mi stupisco solo di quanto a volte il taciuto ci permetta di ottenere i migliori risultati e non chiedo neppure una di tutte quelle cose che chiaramente mi passano per la testa. Dove vai? Hai trovato una sistemazione migliore? Torni da lui? E perché te ne vai? Non ti trovi a tuo agio, hai capito il nostro disagio? E tutte le altre domande. Semplicemente, annuisco. Prima di andare a letto bacio Miriam e le auguro la buonanotte, anche se già dorme. Stupidamente penso che mi mancherà.
È domenica, lei chiama un taxi con disinvoltura. L’avvisa che ci sarà anche un cane, Il tassista non sembra darsi problema. Dalla valigia, l’unica con cui era arrivata, tira fuori un gatto di peluche. Chiama a sé Francesco. Glielo regala. «Si chiama Minù. Non la abbandonare. Aiutala sempre, anche quando ti sembra antipatica e ti delude. Soprattutto quando ti delude». Francesco dice «Sì!» entusiasta, ma non credo possa aver capito. Sapete, talvolta si parla a Caio perché Tizio capisca. Scendono le scale, lei il cane e la bambina. Non vuole che l’accompagni. Qualcosa mi tocca il cuore. Francesco si affaccia per salutarle dal balcone. Grida i loro nomi, si voltano agitano un braccio. E io ho la strana impressione che stiano uscendo definitivamente dalla mia vita. Ma è un’impressione che solo il tempo mi dirà se esatta.
L’altra impressione – amara – e che non riesco a capire se ho fatto tutto quel che dovevo. E il pensiero che trovo non mi aiuta. Nessuno costruisce una casa senza prima aver contato i mattoni, l’ho letto sul Vangelo qualche giorno fa. Già, non dovremmo mai prenderci una croce se non siamo certi di poterla portare fino alla fine della strada – neanche se ci finisce sulle spalle per caso. Ma a sbagliare si può sbagliare sempre nella vita. Con un po’ di incertezza le saluto anch’io. E poi trovo un piccolo conforto nel pensare che se io non sono riuscito ad aiutarla come dovevo, per quanto a suo modo, lei è riuscita a aiutare me. Non è poco. Mi ha ricordato che devo tornare ad essere ogni giorno custode, genitore di Vita del mio amore. Anche se mi delude, soprattutto quando mi delude. Gran bell’insegnamento. Mi spiace – in fondo – che non ci sia un modo per ringraziarla.