
Ripenso a Santachiara. In verità non mi piace essere rifiutato. Non piace a nessuno, immagino. La vera sofferenza è che continuo a non riuscire a mostrare il mio anatroccolo. Sta diventando una frustrazione.
Io accetto volentieri di perdere, ma voglio perdere dopo aver giocato, magari male: ma giocato. Mi ricordo qualcosa di simile una volta in un Open in Sardegna, avevo tredici anni e 1.099 punti Elo: era il mio primo torneo per le finali nazionali, ma dopo varie discussioni decisero di ammettere soli gli Elo da 1.100 punti in su. Non potei giocare. Ero in una forma strepitosa, a tutt’oggi sono convinto che avrei vinto quel torneo. Con facilità. E sarei diventato la più giovane Prima Nazionale italiana.
Eppure non accadde. Rimase la più bruciante di tutte le mie sconfitte. Ho il ricordo esatto di tutte quelle partite che non ho mai giocato. Perché io sapevo esattamente le mosse che avrei eseguito contro Battisti, Venturiello o Cardinali. Ecco, voglio una sorte diversa per il mio anatroccolo. Voglio che perda sul campo.
Bene, Milano. Bernabò o Ali? Ali ha nel nome qualcosa che sale in cielo, eppure non mi entusiasma: alla fine scelgo Bernabò. Sono stanco, penso di fare la email domani. Ma poi mi obbligo a farla subito. È come quando si cade da cavallo. Si deve risalire il più presto possibile, più vogliosi e certi di prima, guai lasciare andare anche solo un’altra ora. Questo mi dico. Anzi esagero. Un paio d’ore dopo chiamo al telefono. Esattamente quel che Manuela La Ferla mi ha consigliato di non fare. Ma non sono fatto per le attese e talvolta neppure per i buoni consigli.
«Agenzia Bernabò, buongiorno».
«Buongiorno sono Dario Fani, ho mandato una email, con allegati una sinossi e le prime dieci pagine del mio testo… desideravo sapere se erano arrivate… sa, non ho avuto nessun tipo di riscontro…», poter dire sinossi mi fa sentire fortemente preparato.
«Un momento che controllo… Dario Fani… sì è arrivato tutto… mail e allegati. È tutto a posto». La voce è piacevole.
«Oh, bene. E come funziona ora?»
«In modo semplice, entro sei mesi lo leggiamo e se è di nostro interesse la invitiamo a mandarci l’opera per intero… se non riceve risposta entro sei mesi vuol dire che non reputiamo di poter rappresentare l’opera e l’autore ma questo non ne pregiudica il valore letterario, tutt’altro. Ci sono una quantità infinita di motivi che possono indurci nel decidere per un no. Tutto qui».
«Sei mesi…?»
«È un tempo indicativo, più o meno… non sia fiscale. È la prima volta che ci manda un testo?»
«Sì, è la prima volta che scrivo qualcosa… non ne so molto… cioè non ne so niente… non sono uno scrittore, mi interesso di progetti, ecco… in verità non conosco nulla del mondo editoriale…»
«Beato lei…», lo dice con una dolcezza incredibile.
«Cioè una cosa la sapevo…»
«Sì… e cosa?» mi piace, è allegra e gioviale. Come non credevo.
«Ecco… sapevo che non bisogna telefonare, dopo aver mandato un racconto… rende antipatici…»
«Oh bene! L’unica cosa che sa, non l’ha fatta?»
«Cominciamo male?»
«Direi di sì… però è fortunato…», sorride.
«Perché?»
«Perché io di solito non rispondo al telefono e non lo dirò a nessuno, va bene?»
«Magnifico!, e di solito lei cos’è che fa?»
«Valuto i manoscritti che voi presunti scrittori ci inviate, senza telefonare»
«Oddio, allora sarà proprio lei a leggerlo?»
«È possibile. Ma mi creda, non è scortesia, ora devo lasciarla. Veramente è del tutto casuale che le abbia risposto io. Non mi pagano per questo. Capisce? Aspettavo un’altra telefonata…»
«Perfettamente. Continuamente mi trovo a fare cose per cui non mi pagano e a rispondere a telefonate che non mi aspetto… Ma lasciamo andare… però sa… da qualche anno, esattamente da quando è nato mio figlio, io credo così poco nella casualità che penso lei abbia risposto proprio di proposito… cioè che la telefonata che aspettava era proprio questa, la mia…» Lo dico con una convinzione profonda e strana. Cioè vera.
«Come dice?»
«Nulla. Riflettevo a voce alta… però…»
«Sì?»
Sorrido «Visto che ha risposto e non doveva. Le posso chiedere di fare un’altra cosa che di solito non fa… una cortesia?»
«Se posso volentieri…»
«Mi può dire cosa pensa del mio testo, entro stasera…»
Rimane un momento in silenzio. Sento che non è abituata a mentire, eppure ci pensa.
«Perché proprio entro stasera?» chiede poi con vera curiosità.
Le racconto di tutta la mia frustrazione. Lo faccio con la massima sincerità. Le dico dell’anatroccolo che è uscito dall’uovo che nessuno vuol vedere. Degli editor, di Manuela La Ferla, dell’Agenzia Santachiara. Riesco perfino a dirle dell’Open di Sardegna. Dei 1.099 punti Elo. 1 punto e non poter giocare. Mi sembra inverosimile la sua pazienza e la sua cordialità.
«Capisco. Di cosa parla il suo testo?»
«Di mio figlio. Del rapporto fra me e mio figlio»
«Quanti anni ha suo figlio?»
«Quattro. È un bimbo con la sindrome di Down»
«Sì…»
«Si chiama Francesco…»
«È un bel nome».
«Al principio mi riusciva solo di chiamarlo pesciolino…»
«Senta, non glielo prometto… ma provo a risponderle entro questa sera… va bene?»
Non so perché lo dice, ma sembra davvero me lo dica perché pensa di farlo. Mi rincuora. Ci salutiamo con grande simpatia. Si chiama Mariavittoria Puccetti. In ogni caso, che lo faccia o meno, so che non la dimenticherò.
Non me l’aspetto, per nulla, ma poco prima della mezzanotte arriva il suo messaggio.
Mariavittoria a me
Gentile Dario,
la prego di inviarmi l’opera per intero.
È di mio interesse. Grazie.
Mariavittoria Puccetti
È una gioia immensa. L’anatroccolo ha trovato due occhi esperti disposti a valutarlo. Tutto quel che ne può venire quasi non mi interessa più. Vorrei scriverle «MiVi, ti voglio bene!», ma limito tutto a poche righe formali e l’allegato completo del testo.
Io a Mariavittoria
Gentilissima Mariavittoria Puccetti,
le allego il testo completo. Non ci sono i capitoli.
Non ho parole per ringraziarla della disponibilità.
Papà Dario (progettista).
Bene, si va a spegnere la mia giornata. Una magnifica giornata. Venti giorni dopo Mariavittoria mi chiama e fissiamo un incontro a Milano.
Foto: Cellphone di Victor Casale / CC BY-NC 2.0