
Entro alla posta, una posta che non è la mia. Neanche la zona conosco bene, siamo a Acilia. Riconosco però la confusione, il disordine, i toni alti. Ultimamente è ovunque. Gente che protesta, bambini che piangono. C’è tensione. È normale, siamo in periodo natalizio: tutti diventano nervosi. Perfino le mamme impazziscono con i figli che non vanno più a scuola. Non servono a questo le feste? A rendere irritabile gente già irritata?
Stringo la mano di Francesco e mi ricordo che sono il papà di un bimbo disabile. Io sono fuori dalla normalità. Avrei diritto a una fila diversa. Più breve. Ma dov’è la mia difficoltà, rispetto la disabilità di mio figlio? rispetto a queste mamme che tengono un bimbo in braccio mentre un altro gli corre fra i paletti sistemati per gestire una fila che non esiste? No, in tutta onestà, non sento il diritto d’andare a prendere un numeretto speciale.
Così prendo quello che la macchinetta distribuisce. Esce un F94, mentre il display chiama un F57. Quasi mi pento, ma non ho particolare urgenza e a Francesco la posta è un luogo che piace. Cerca di divincolarsi dalla mia presa per qualche momento resisto, poi cedo.
Chiaramente fra tutti si sceglie il più sfrenato dei bimbi. Quello che corre e urla e si lascia scivolare a terra fino al muro. Sembra davvero senza padroni. Anche un terzo bimbo scappa dalla fila dove mi sono sistemato e li raggiunge, la mamma cerca inutilmente di richiamarlo: «Cesare! Vieni qui! vieni qui subito!»
Si volta – tenendo l’altra bimba in braccio, che non avrà neppure un anno – e mi guarda: «Non si faranno male?», domanda. Scuoto la testa: «Non credo, credo che si divertiranno». Mi fissa incerta, forse stupita ma è troppo stanca per replicare qualcosa. Le sorrido, capisco il suo disagio. «Vado» le dico sereno, e mi avvicino alle corse sfrenate di quei bambini fingendo – per quella mamma – un’idea di sorveglianza e sicurezza che per certo non so dare.
Mentre vado da loro qualcuno mi viene vicino. Sembra un asiatico, pelle scura – forse è indiano. Biascica delle parole. Mi tocca più volte per richiamare la mia attenzione. Agita dei moduli. Puzza di vino e di strada e di tutti quegli altri odori di spezie che non vi dico perché so che li conoscete. Ha una barba lunga e scura, aggrovigliata. Eppure non mi pare una minaccia.
«Cosa c’è che non va?» domando. Gli occhi arrossati, ma belli. Espressivi. Scuote la testa, non mi capisce. Provo con l’inglese. Parla un buon inglese. Si chiama Abhishek, ha bisogno di spedire quei pacchi entro oggi, ma non sa come fare. Non ha soldi, cinque o sei euro in tutto. Ma sembra che la sua vita dipenda da quello. È disperato, per un istante penso possa scoppiare a piangere.
Lo calmo. Gli lascio intendere che non è difficile e lo faremo insieme, comincio a riempire il primo modulo. Mi ringrazia. Non risulta facile neanche a me, ma alla fine facciamo tutto, spedizione compresa. E me la cavo in fondo con trentaquattro euro e sessanta centesimi di spesa. Nulla di più.
Guardo il display, ancora 11 numeri. Cesare è tornato dalla sua mamma e Abhishek è rimasto accanto a me e non fa altro che ringraziarmi. Insiste nel dire che vuole, deve sdebitarsi. Io insisto nel dire che non è necessario. Con i pochi spicci che ha in tasca decide di offrirmi un caffè. E io capisco che se voglio completare quell’opera che ho iniziato non posso rifiutare. Si dispone a aspettare con me, per poi andare al bar.
Guardo il display, siamo a F87 e decido che non mi interessa più. Ci sarà un altro giorno per le mie cose. Mi alzo, prendo la mano di Chicco e vado verso l’uscita. Abhishek mi segue. «Tenga, fra 7 numeri tocca a lei», dico a un uomo che sta entrando e faccio per dargli il mio numeretto. L’uomo mi guarda, poi guarda Abhishek e poi anche Francesco. Si irrigidisce. È sospettoso, rinuncia a prenderlo, mi allontana e allora lascio quel numeretto, accanto alla macchinetta distributrice.
Fuori va meglio e attraversata la strada, in modo inatteso, lui prende in braccio Francesco. Chicco appare sereno e subito comincia a tirare quella barba nera, sporca e irsuta. Lui ride. Con metà dei denti ingialliti e l’altra metà che non c’è. Camminiamo verso il bar così: un papà in giacca e cravatta, un bambino con un cromosoma in più e un uomo con qualche dente in meno. Senza dare importanza al resto.
Lo so, rischio molto, se Iole mi vede il divorzio è certo con aggiunta la richiesta di diffida a frequentare il bambino. Ma Iole quaggiù non arriva. Acilia, sa a malapena che esiste. Mi tranquillizzo.
E una volta nel bar, con Francesco sempre in braccio Abhishek mi racconta di sé, di sua moglie, dei suoi sette figli, entro nella sua storia che è una bella storia, come è bella la storia di ogni uomo se ci prendiamo il tempo di ascoltarla. Tutto senza curarci troppo dello sguardo degli altri.
E quando ci salutiamo ci penso. Se avessi fatto la mia fila rapida e sicura da «papà di disabile», mi sarei perso qualcosa oggi, no? Voglio dire, talvolta è necessario saper accettare anche la «normalità».