
Ci sentiamo alle 12.00 più o meno puntuali. La voce è gentile e simpatica. Qualche minuto e la comunicazione cade. Ci riproviamo, cade di nuovo. Cambio stanza, la cosa sembra funzionare meglio. L’assenza di disappunto mi conferma che è una persona «garbata».
Non l’ho mai incontrata prima di ora, non l’ho mai vista in viso, neppure un caffè insieme abbiamo mai preso, ma per telefono, sollecitato dalle sue domande, comincio a raccontarle le emozioni provate in momenti delicati della mia vita.
In questi ultimi mesi è capitato spesso: confidare, a una voce senza volto, una voce che ascolto per la prima volta, le mie cose private, che magari a amici prossimi, di cui conosco espressioni e segni del viso, non racconto o non ho mai raccontato.
Ad essere precisi – e l’avrete capito – si chiamano interviste, sono più o meno necessarie dopo che si è scritto un libro. Ed è inevitabile che entrino nel nostro privato, se il libro che si è scritto è perlopiù una autobiografia. Insomma niente di eccezionale, solo nuovo per me. Ci devo ancora fare l’abitudine e forse neppure è necessario che ce la faccia.
La persona in questione è Elisabetta Pina e scrive per un Quotidiano sulle politiche sociali in Europa: immigrati, disabili, dipendenza, minori, welfare. Quando può mi porge i complimenti per il libro e avverto che sono sinceri. Ci scambiamo qualche considerazione fuori dai ruoli, come è bello che sia, e avverto il modo in cui appunta le sue curiosità mentre parliamo.
Tutto procede come è accaduto per le altre interviste e sembra debba finire, più o meno, come si sono concluse le altre. Per quanto poco abituato, ora affronto le interviste in modo diverso. Trovo il tempo anche per osservare come sono cambiato io, come gestisco le mie emozioni, come cambiano, come sono cambiate, fra la prima intervista che ho ricevuto e questa che al momento è l’ultima.
E mentre mi alterno fra il rispondere e lo studiarmi, d’improvviso, o meglio con un minimo di preavviso che non può essere considerato tale, lei sterza. Esce dalla linea comune. Parla di un foglietto. Quel foglietto che io racconto nel libro un’infermiera mi consegna poco dopo la nascita di Francesco. È il foglietto che spiega mio figlio. «Come se invece di un bimbo fossi diventato papà di un medicinale». Cioè un foglio con l’elenco di tutte le malattie a cui mio figlio può andare soggetto nel corso degli anni. Dalle patologie cardiache al deficit immunologico incluse infezioni e malattie tumorali. La domanda appare quasi innocente, forse lo è. Cioè priva di malizia.
«Quel foglietto lo tiene ancora con sé?», chiede.
Al solito fingo distacco, rispondo educato, confermo semplicemente che quel foglietto: sì, ancora c’è. Nel quotidiano la mia prima reazione, dopo sei anni di Francesco, rimane la stessa: eclissare rapidamente sulle difficoltà. Fingere. Più mi toccano duro, più allargo il sorriso. Il foglietto: nessuno fino ad oggi, prima di lei, si era mai permesso di chiederlo, così come in ospedale nessuno si era mai permesso di commentarlo. Ma la cosa mi spiazza. Forse lei, da brava giornalista, lo fiuta. Ma non affonda, di fatto l’intervista va a spegnersi. E io non le lascio intendere quanto me la porterò dentro quella domanda. Dopo i saluti la mia mente continuerà a chiedersi:
«Perché quel foglietto c’è ancora? Perché lo conservi, Dario?»
La mia mente è fatta così. Se viene attivata, non si ferma. Vuole capire le cose. Dopo sei anni di Francesco la mia mente è ancora stupidamente così. Vuole sapere, indagare. Durante il giorno, lungo la strada che mi porta al lavoro, mentre nuoto in piscina, al mattino sotto la prima doccia. Durante una pausa per il pranzo o nei momenti stanchi di una noiosa cena di lavoro la mia mente torna con quella domanda: «Perché tieni quel foglietto ancora con te?»
Sono passati sei anni, perché?
E nei giorni seguenti trovo varie risposte, così per acquietare la mente ma nessuna convincente. La risposta convincente, ho imparato grazie a mio figlio, è una sola: la verità. Al principio ce l’ho con questa giornalista che poteva chiuderla un attimo prima, eravamo ai saluti… ma so che è sbagliato. Le domande scomode sono come piccole lame, bisturi che usiamo nella vita, incidono, tagliano, feriscono vanno in profondità. Ma servono. Tolgono il male.
Do la colpa del mio disagio a Elisabetta Pina, perché è il mio modo di giocare, chi ha letto il libro lo sa. In prima istanza cerco un colpevole per non caricarmi di colpe che sono tutte mie. La verità è un’altra: certe domande, se non te le fanno gli altri prima e poi te le farai da solo. Certe domande non puoi evitarle, se c’è un foglietto – irritante e doloroso – e lo conservi: c’è anche un perché. E in fondo non sono pericolose le persone che anticipano le domande che danno disagio. Tutt’altro. Sono pericolose le persone che pensano di poterti anticipare le risposte.
Quelle che pensano di dirti cosa accadrà al tuo futuro, al futuro di tuo figlio, passandoti un foglietto o le altre che vogliono dirti cosa accadrà a te se non farai questo o quest’altra cosa. Così faccio il primo passo verso la verità: non ce l’ho con Elisabetta Pina, non ha colpe anche se ha reso un poco più irrequiete le ore serene del mio nuoto. Me lo ripeto: è una amabile e brava giornalista. Questo però non risolve la mia querelle.
E so che è una nota di fondo che non andrà via, che la mia mente non manderà via, finché non le avrò trovato una risposta definitiva. Quel foglietto c’è ancora, perché? Certo, è sommerso da una quantità infinita di altri foglietti, di documenti che hanno accompagnato e accompagnano la crescita di Francesco. Altre analisi, permessi, visite, risultati, certificazioni, esami, visti, burocrazia. È ingiallito. Non lo apro più da anni. Da diversi anni, ma Elisabetta mi ha ricordato che c’è. Come un sasso lanciato in uno stagno è sparito alla vista, è sceso nel fondo ma, se ti vai a sporcare le mani, lo trovi ancora là: fra il fango e la melma. Nessuno l’ha tolto. Io non l’ho tolto.
Ecco, cos’è che non ho tolto, veramente?
La paura. Questa è rimasta. Quel foglietto c’è per un solo motivo, perché dentro di me c’è ancora sottile la paura che una di quelle cose scritte là possa avverarsi. Che mio figlio possa essere colto all’improvviso da una leucemia, da un problema al cuore, dal diabete, da tutte quelle brutte cose a cui un cromosoma in più l’espone. È lì per ricordare, alla parte più buia di me, che tutto è andato bene. Per ora. Ma che tutto può cambiare.
Paura. Bene, ma che vuol dire? Niente di nuovo, che occorre andare ancora più in fondo, giù a scavare. Trovare la verità, dietro questa prima verità. Perché mio figlio Francesco mi ha insegnato che la paura, qualunque paura, per quanto vera non è mai l’ultima verità.
E per quanto possa sembrarvi strano divento più sereno. Perché quando conosco il mio avversario, divento sereno. La paura poi è un avversario che conosco talmente bene ormai, che so che vincerò. Alla fine io vincerò. Mi rincuoro, perfino la mia mente si distende. Ora è certa che, fra un mulinello e l’altro, alla fine la soluzione la troverà.
Mi preparo per andare alla festa di Giacomo l’amichetto di Francesco, anche lui col cromosoma in più, e mentre aspetto che Iole sia pronta, rapidamente leggo in internet l’articolo di una mamma che, nella migliore delle ipotesi, era destinata a partorire una bimba morta perché a detta dei medici se fosse nata viva sarebbe stata la più grande pena e disgrazia della sua vita. Ritardata, cieca, sorda, senza un rene.
Bene questa donna oggi gioca a fare la mamma felice di una bimba sana, senza che i medici sappiano spiegarsi il perché. Qualcosa comincia ad accendersi dentro di me, il principio di una risposta. Alla festa di Giacomo, arrivo con quella nota di sottofondo, osservo, mi confronto con gli altri genitori, guardo gli altri bambini, quelli con il cromosoma in più e quelli con il cromosoma in meno, mentre si rincorrono felici. Le mamme, i papà. Siamo in una fattoria didattica.
Guardo le galline con i loro pulcini. La gatta con i suoi cuccioli. Una mamma richiama il suo bambino, vuole mettergli il giacchetto, il cielo si è oscurato, ha paura che prenda freddo. È quel che mancava, mi rendo conto di una cosa: la paura, tutti hanno paura. Mi accorgo che ovunque può accadere qualcosa. Può accadere che un bimbo si raffreddi o cada dallo scivolo, che finisca nel fosso, che esca in strada e si perda, che si ferisca giocando, capisco perfino che la gatta ha paura che qualcuno possa colpire il suo gattino. Ovunque c’è il pericolo.
Si accende la luce. Ognuno di quei bambini ha un foglietto scritto nel fondo di un cassetto. Ognuno di quei genitori, di quegli animali. Anch’io da qualche parte devo avere quel foglietto. Nel fondo di chissà quale cassetto, c’è anche il mio foglietto.
Giulia mi viene incontro, interrompe i miei pensieri che sono ormai maturi: «Vuoi la torta?»
«Due porzioni!» dico entusiasta.
«Ma non sei grasso abbastanza?»
«Grasso non è mai abbastanza!», le rispondo.
Sorride. Sorrido. Bello, il mondo.
Perché tutto sta diventando chiaro. Quel foglietto non mi fa più paura.
Mi è stato dato in anticipo qualcosa che in verità non ha alcun senso.
Può accadere tra un mese tra un anno ma anche dopodomani, forse perfino stasera. Può accadere a me, a Francesco a quella gatta o all’intero pianeta. Capisco che quel foglietto che conservo non è per mio figlio: è per tutti, cioè per nessuno. Senza valore. È inutile preoccuparsene. Meglio la torta.
La mia paura, nascosta nel fondo dello stagno, si scioglie fra tutte le altre paure che ci dà il mondo. Tutto diventa quasi banale. Non c’è foglietto illustrativo che possa assicurare la nostra vita. E allora non ce ne è alcuno che possa guastarla. È una cosa talmente ovvia. C’è una quantità infinita di incertezze che ci aspetta ogni giorno dietro l’angolo di casa e a cui in una maniera o nell’altra dovremo far fronte.
Perché preoccuparci di un foglietto? Così come c’è quella quantità di gioia infinita che sta nel fiore più piccolo di ogni singolo parco in cui vanno a giocare i nostri bambini. Non c’è altro. E allora trovo idiota, veramente idiota che qualche medico o qualche infermiera o semplicemente qualche zelante amico decida di fare Dio, di darti foglietti o consigli di cui non sa nulla. Non può sapere nulla. Che pensa di poterti aiutare illustrandoti le persone come fossero dei medicinali. Che idiozia! Devo dirlo all’infermiera, al prossimo papà (col cromosoma in più) se vuole davvero dare qualcosa che possa aiutarlo, dia una fetta di torta. Ha lo stesso valore del suo un foglietto illustrativo, ma è più buona.
Ci chiamano: è il momento di aprire i regali. Il mio l’ho già scartato.
Tornando a casa, in macchina cantiamo con Francesco “Una su un milione” di Britti, la sua preferita. «Amo, amo un buco alla ciambella. La sua dolcezza effimera la rende così bella… Più alti dei giganti più forti di Godzilla. Faremo una crociera su una nave tutta gialla… Amo, amo il sugo sulla pasta. Finché non è finito non saprò mai dire basta…». Rido e canto, insieme a lui e a Iole. Tutto è tornato normale. Il foglietto sta bene dov’è, sepolto nel fondo di tanti altri foglietti. So per certo che il dolore che doveva dare l’ha già dato, il punto che doveva segnare l’ha già segnato. Non c’è motivo di preoccuparsene ancora.
È giovedì. Tolgo l’accappatoio e un momento prima di arrivare in corsia mi ricordo di ringraziare mentalmente Elisabetta Pina, perché senza la sua domanda non ci sarebbe stata nessuna riflessione e quel foglietto, in qualsiasi momento, sarebbe potuto tornare su d’improvviso, come un singhiozzo fastidioso e temibile. Ora, se dovesse accadere, so per certo come mandare via quel singulto da me.
Mi tuffo e comincio a nuotare. Nessun mulinello nella testa, solo il respiro che fluido entra e esce dopo ogni bracciata.
Foto by Giulia Pasqualin – finalmente fuori – concorso fotografico CLICCA LA COPERTINA