
Rientro con un poco d’anticipo dai miei appuntamenti. Sono tanto delicato che credo né Iole, né Francesco si accorgono del mio arrivo. Poso la borsa con il computer a terra. Entro nel salone con le braccia già aperte. Francesco ha allineato tutti i suoi animali sul tappeto rosso. «URRR!», grido io «Gongolo il mostro dei Mari viene a spazzare il mondo!»
Scalcio quella fila interminabile di cani, gatti, cervi, volpi, maiali, cavalli, galline, canguri… è un modo per dire in maniera assai urlata: papà è già pronto a giocare con te! Ma non ottengo l’effetto che desideravo. Francesco mi colpisce con dei pugnetti sulle caviglie. Grida: «No papà! Cattivo! Vai via! via!» mi rendo conto che quella fila aveva un senso profondo e importante che a me sfuggiva. Poi mi cattura un pensiero più duro e profondo: mi accanisco su file di animali che troppo spesso vedo fare a mio figlio, perché non ne capisco il senso e ciò mi rende cupo. Mi mette paura. Temo che nascondano qualcosa di lui che io non voglio sapere. E mi illudo che tutto possa risolversi con un semplice calcio. Mi illudo che sia sufficiente spezzare le linee per spazzare tutto il resto. Ma mi fermo: no!, è un pensiero troppo difficile per un venerdì pomeriggio.
Allora provo solo a rendere meno tesa l’atmosfera, mi tuffo su di lui e gli solletico il pancino. Il broncio rimane. «Lotta pazza nel lettone?» Suggerisco sdraiandomi sul tappeto accanto a lui, senza neppure togliere giacca e cravatta. Mi fissa, ma non cede. «Papà, via! Vattene!» ripete. E allora lentamente mi allontano. La più importante, o quanto meno la prima, fra regole fondamentali della prassi comunicativa è quella di non insistere con il proprio messaggio se ci si accorge che l’altro non è pronto a riceverlo. Certo Watzlawick sostiene che è impossibile non comunicare, ma è altrettanto impossibile, oltre che inaccettabile, pensare di forzare l’incontro con l’altro. Per quanto buone siano le nostre intenzioni, non possiamo riferirle a chi non ha intenzione di accoglierle. L’amore sincero presuppone anche questo tipo di sacrificio. Rispettare sino in fondo la volontà dell’altro, anche se questi sbaglia a interpretare la nostra. Da fastidio, ma va accettato. Mi ritiro in camera.
Iole pensa che può segnare un punto e si fa avanti. Entra in salone: «Che c’è cucciolo? Che è successo?» chiede. «Papà cattivo!, Mandalo via!» risponde secco Francesco mostrando ancora tutta la sua sofferenza. Lei scuote la testa e poi entra in camera spalancando quella porta che avevo socchiuso, mi sto ancora cambiando. Ha un sorrisetto velenoso e vincente: «Sei arrivato da un minuto e già l’hai fatto incazzare?» È un affondo che non merito. Ma – per tante ragioni – non può essere Iole la mia alleata in questi giorni. Lo so. Dunque non mi sorprende.
«Che vuoi? sono uno che non passa inosservato». Rispondo con l’istinto di chi sa come difendersi e vuole farlo capire. Cioè come uno che non è disposto a subire. «Ed è un pregio?», insiste lei. «È una caratteristica. Un modo d’essere. A volte pregio, a volte difetto». Rispondo sgarbato. Capisce che non arretrerò d’un millimetro. Mi guarda con sufficienza. Esce, in fondo anche lei intuisce che c’è altro di cui occuparsi, più utile di una sterile polemica pomeridiana. Se lo decido, non sono uno facile.
La verità però è tutta un’altra: è che ci dovremmo dire cose che non troviamo il tempo di dirci e ce le diciamo malamente. Fra battute, sguardi e mezze parole. Il peggio che può accadere a un esperto di comunicazione. Di piacevole c’è che ho indossato la tuta e un paio di comode pantofole. Già qualcosa sembra migliorare. Non so perché ma mi torna in mente mia nonna. Era una donna piccola che amava chiamarmi “angelo mio” e mi ripeteva spesso una frase che per lungo tempo ho considerato sciocca: “Angelo mio, tu bussa sempre. Bussa anche quando ti accorgi che la porta è già aperta”.
Io, al contrario, sono cresciuto in un ambiente difficile, ostentando un’arroganza giovanile che mi ha fatto spalancare senza bussare molte porte chiuse, e la frase di mia nonna l’ho messa da parte così come si fa per le cose che si credono inutili. Non penso sia casuale il fatto che mi sia tornata in mente ora. Lo prendo anzi come un inatteso suggerimento. Getto lo sguardo verso il salone, Francesco ancora fermo sul tappeto con gli animali rovesciati in terra, così come li ho lasciati. Incerto, ma non più furioso. Mi nascondo dietro lo stipite e busso una o due volte contro la porta già aperta.
«È permesso?», domando con una voce sottile senza sporgermi. Francesco alza la testa, guarda incuriosito. Io resto nascosto di nuovo dietro lo stipite. Torno a bussare e stavolta faccio capolino. «È permesso?», ripeto. Mio figlio continua a fissarmi mentre un incerto sorriso gli si apre sul viso. Mi nascondo di nuovo e busso ancora: «Posso entrare?» con la vocina sottile. Sento il suo sorriso aprirsi. «Si può?» dico facendo di nuovo capolino stavolta con occhi sgranati. Lui ride. Toc-Toc.
«È permesso?», ripeto facendo diventare ogni volta la faccia più buffa. Alla fine si alza, mi afferra la mano. Mi tira a sé. «Vieni papà, vieni a giocare con chicco». Mi sdraio vicino a lui. Rialziamo a uno a uno quegli animali che sembravano spacciati. E stavolta è lui che mi chiede di fare il Terribile Gongolo dei mari, quello che muovendosi goffamente scalcia ogni pupazzo lontano. Ecco, ora lui ride e io… gongolo.
Andiamo avanti l’intero pomeriggio fin tanto che non lo vince la stanchezza. Allora cerca la cena, allora cerca la mamma. Non ceno con loro. Un po’ per ripicca, un po’ per punire Iole e un po’ forse per punirmi, tutto per cose che – in fondo – non hanno alcun senso. Sì è idiota, come è idiota ogni forma di rancore che ci portiamo dietro. Da una e dall’altra parte. Ma è quel che accade. Apro la Bibbia. Ho cominciato a leggerla da quando Don Michele mi ha detto che non posso capire in profondità i Vangeli senza conoscere il Vecchio Testamento. La trovo ostica. Distante da me. E quando sono troppo disorientato mi rifugio spesso nel Cantico dei Cantici, c’è tanta leggerezza e tanta poesia. Una tale vitalità, perché rinunciarvi? E poi è quel che manca alla mia vita, in questo periodo. Nel sesto poema c’è un brano che ogni volta trovo di una bellezza straordinaria. Anche di sapienza: è in grado di riassumere qualsiasi formula di richiamo e fuga del “gioco comunicativo” amoroso o meno, credo meglio di quanto sia stato fatto da Watzlawick o Wittgenstein o in generale dagli altri studiosi in questo ultimo secolo. Dice tutto in poche frasi. Recita così.
«Aprimi, sorella mia,
mia amica, mia colomba, perfetta mia;
perché il mio capo è bagnato di rugiada,
i miei riccioli di gocce notturne».
«Mi sono tolta la veste;
devo indossarla ancora?
Mi sono lavata i piedi;
devo ancora sporcarli?»
Mi entusiasma. Ogni volta che lo leggo non posso fare a meno di stravedere per questo sposo premuroso, che accoglie e si presta al gioco reticente della sua amata che per certo non può – né vuole – rifiutarlo e discreto bussa e prega perché gli sia aperto un uscio che per legge lui sa che non potrebbe mai essergli chiuso. Mi ricorda quanto sia sciocco e inutile ferire e ferirsi quando si può semplicemente giocare. E di quante volte me ne dimentico, e cado nell’altro gioco quello diabolico della vittima o del carnefice. Tutto inutilmente. Colpisco e vengo colpito. E poi a porci rimedio ci vuole pazienza. Il cuore degli altri è un luogo estremante delicato e prezioso, non c’è altra maniera per entrare che la cura. L’attenzione continua. La tenerezza è l’unica chiave. Funziona anche per i cuori induriti. Ne sono certo. È solo questione di tempo. Guardo Francesco sta spiegando a cuoricino qualcosa che cuoricino si ostina a non capire, ma lui non si da per vinto, insiste con una dolcezza infinita. Ho uno straordinario Maestro in casa. Imparerò. Il segreto per entrare nel cuore degli altri lo conosco, per quanto semplice e per quanto siano passati gli anni, rimane sempre lo stesso: bussa, anche quando la porta è già aperta. E allora lei ti verrà incontro, con la veste da rimettere e i piedi da sporcare.
il tuo modo di scrivere è straordinario, ogni tua parola si insinua nell’ anima, giù nel profondo e ti spinge a pensare…