C’è un uomo che sale sopra una cattedra, davanti a un gruppo di ragazzi. È un uomo di mezza età. Ha una buona cultura. Sa che sta facendo qualcosa di sbagliato e, probabilmente, diseducativo. Lo fa di fronte a dei ragazzi.
I ragazzi avranno fra i sedici e i diciotto anni. È un’età delicata. È ancora possibile plasmare le loro menti. Di più sono menti che vivono di assoluti, ricercano le novità. Sono studenti, in una classe. Quell’uomo è il loro insegnante. Una figura di riferimento. Ha un curriculum eccellente, è nel pieno delle sue facoltà mentali. Compie quel gesto di proposito.
Perché lo fa? Non c’è da ragionarci troppo sopra. Ce lo dice lui stesso subito dopo averlo fatto: «Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo guardare le cose sempre da angolazioni diverse».
Non so se questa scena si sia mai svolta nella realtà. È un’immagine presa dal film L’attimo fuggente di Peter Weir. L’insegnante è interpretato da un bravissimo Robin Williams. Siamo quasi al principio del film. La scena conclusiva di quel film ci mostrerà tutti quei ragazzi salire senza timori sul loro banco per salutare quell’insegnante sconfitto da un sistema che chiede una forma di omologazione che lui non è più disposto a dare.
Una mente sottile e capziosa saprebbe scorgere una forma di omologazione anche in quel gesto unanime di protesta collettiva, proprio perché fatto da tutti alla medesima maniera, senza la ricerca di una variante ricalcando in maniera acritica quella che al principio voleva essere solo una possibile proposta del loro insegnante. Ma non mi interessa in questa sede fare dei sofismi. Meglio cogliere quel messaggio diretto e bello. Sì, mi interessa fissare lo sguardo su quel primo invito. Sulla forza di quel pensiero: guardare le cose sempre da angolazioni diverse.
Ma perché? Perché dobbiamo vedere le cose da angolazioni diverse?
Perché è l’unica maniera che abbiamo di entrare in relazione con le cose quando ci appaiono sfocate. Imprecise. Inadeguate. Perché è quel che mi ha insegnato mio figlio venendo al mondo. La sua prima richiesta. Guardami al di là del vetro. Scorgimi per ciò che non ti appaio. Se non sappiamo spostare l’angolazione del nostro sguardo non siamo capaci di entrare in relazione con l’altro. Perché l’altro ha sempre, per definizione, uno sguardo “diverso”. Chi ha il mio stesso sguardo, non è “altro” da me.
Ma è solo questo? È solo per cogliere l’altro che dobbiamo imparare a muovere diversamente lo sguardo? No, cambiare angolazione permette anche di sviluppare una maggiore coscienza della nostra identità. Questo muovere il punto di vista rende più grandi, più capaci: in qualche maniera ci amplifica: ci arricchisce.
Diceva Pavese: “Continuo a osservare un oggetto, fino alla stanchezza, finché d’improvviso non m’appare del tutto nuovo. Diverso.” Ora credete davvero che cambiasse l’oggetto? Si arricchiva Pavese di un nuovo oggetto pur non spostando mai lo sguardo da quello stesso oggetto. Spesso cogliamo la diversità come minaccia, la viviamo come ostacolo. Accostiamo alla diversità con sentimenti di sospetto, ansia, paura. Facciamo diventare l’incontro, scontro. Non muoviamo dal nostro pregiudizio, anzi ne intensifichiamo la presa.
Ma il pregiudizio non è istintivo, non ci appartiene. Tutt’altro: è di matrice culturale, trova le radici nell’educazione familiare, trova nutrimento nell’ambiente sociale e si fortifica e si struttura nel “pensiero” della comunità in cui si vive. Se desideriamo evitare la diffusione di pregiudizi dobbiamo intervenire in ogni aspetto della formazione dell’individuo. A livello familiare, scolastico e sociale.
Educare alla diversità come a una ricchezza, stimolare i bambini e i ragazzi a sviluppare un pensiero proprio, autentico personale, anche critico piuttosto che insegnare loro nozioni e concetti preordinati. Talvolta, in maniera esasperata, ho pensato che la scuola non fosse una risorsa per mio figlio Francesco, ma che fosse vero il contrario che mio figlio fosse una risorsa per la scuola. In maniera equilibrata so che il vero è a metà: sono uno risorsa per l’altro, è come lo è Francesco risorsa unica per quella scuola lo è ogni altro bambino della sua classe.
Mi avvilisco però quando trovo evidente che la scuola dimentica il compito principale per cui è concepita. La scuola prima di nomi, cose e città dovrebbe essere in grado di insegnare l’accoglienza. Dovrebbe diventare il luogo in cui scoprire l’altro. Colui che non è della mia famiglia. Se manca questo compito, manca l’essenza stessa del suo esistere. La scuola che ha un senso è quella che sa educare all’altro, all’accettazione del diverso. La cultura si accresce solo accogliendo nuove forme di cultura. Solo spostando lo sguardo.
La forza e la ricchezza di un gruppo è data non da quel che gli elementi del gruppo hanno in comune ma da tutto ciò per cui differiscono. La comunità ha valore solo se è fatta di tante diversità. Io voglio dare i miei pomodori a chi può darmi il pane, che me ne faccio altrimenti dei suoi pomodori, che me ne faccio se sono uguali ai miei?
L’altro, è prezioso non nella misura in cui mi è uguale, ma in tutto ciò in cui è diverso da me. La mia risorsa sono le sue diversità, la sua risorsa sono le mie diversità. Se non sono cosciente di questo, se non sono stato educato a capire questo, posso andare a incontrare chiunque, posso viaggiare per il mondo in lungo e in largo senza ricavarne mai nulla. Viaggiare non porta in nessun luogo, se non sono stato educato a fare in modo che l’altro possa viaggiare dentro di me.
In fondo mio figlio mi ha insegnato una cosa molto semplice e che sapevamo già. Il viaggio che illumina è quello interiore. Maestro Chicco docet.
Ho appena finito di leggere il suo bellissimo libro. Grazie per aver condiviso questa preziosa storia d’amore.